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Giorgio Gaggiotti sulla macchina del tempo

 

Giorgio Gaggiotti sulla macchina del tempo: aneddoti e nostalgia nel webinar di BresciAcademy

Giorgio Gaggiotti oggi è il direttore generale di una delle società giovanili più importanti della provincia, l’ADC Mario Rigamonti. Per molti anni, tuttavia, la sua professione è stata quella di team manager del Brescia Calcio, precisamente lungo tutto il decennio degli anni ’90.

Persona mai banale – tantomeno timorosa di esporre idee forti che riguardano il calcio, a tutti i livelli -, Gaggiotti ha portato ieri sera il suo ricco database di aneddoti relativi proprio agli anni delle Rondinelle per chiudere il ciclo di incontri organizzati dal Brescia sulla figura del dirigente accompagnatore.

Da settembre 2020 a ieri, Brescia Academy ha intavolato l’argomento attivando i canali Zoom per metterli a disposizione delle società affiliate sparse per la provincia, quelle che hanno aderito al progetto #NoiSiamoIlBrescia.

Grazie anche alla moderazione degli psicologi sportivi Fabio Pansera e Davide Este, è scaturita una chiacchierata interessante, che ha toccato molti punti centrali di un ruolo, quello del dirigente accompagnatore, che spesso passa in secondo piano e che invece regge su di sé una rilevanza eccezionale.

«La sua figura all’interno di un gruppo squadra è fondamentale – spiega Gaggiotti -: non ha pressioni esterne, non deve fare scelte, ha quindi la possibilità di stringere rapporti non conflittuali sia con i giocatori che con la società. Può mediare tra i due soggetti e deve essere bravo a risolvere i piccoli problemi che naturalmente si creano, senza necessariamente riportare i fatti.

Trovo sbagliato far fare tutto all’allenatore, ci sono diverse altre persone che frequentano lo spogliatoio anche più del mister e che hanno un’influenza decisiva sui calciatori, come ad esempio il dottore e i massaggiatori. O il team manager».

“Dinamiche di gruppo e spogliatoio: un tuffo nel dietro le quinte del calcio giocato”. Questo il titolo del webinar proposto, che entra in una serie di appuntamenti voluti dall’Academy del responsabile Paolo Migliorati: «Durante il primo lockdown ci era venuta l’idea di organizzare dei webinar da indirizzare alle società affiliate: da aprile 2020 in poi ne proponemmo una decina, e in questa stagione abbiamo deciso di riprendere il discorso. Io scelgo il tema, che poi giro agli staff dell’attività di base, i quali lo elaborano. Sono due incontri al mese, abbiamo già toccato gli argomenti più svariati. Non potendo scendere in campo, questo è l’unico servizio che possiamo fornire alle 28 società che collaborano con noi».

Migliorati dà il “la”, l’Academy ci lavora su, Jenny Generale e Franco Savino – responsabili del progetto #NoiSiamoIlBrescia – organizzano gli incontri con le affiliate: «Abbiamo avuto la lungimiranza di prevedere le difficoltà di quest’annata – precisa Generale -, riuscendo a rimanere resilienti al momento. Per noi è fondamentale farci sempre sentire vicini alle società che hanno aderito al nostro network. Con questi webinar stiamo esplorando in lungo e in largo le diverse competenze di cui una squadra ha bisogno.

Nello specifico, il ciclo concluso ieri, che riguardava la figura del dirigente accompagnatore, aveva avuto tre precedenti, ognuno con il suo ospite e la sua tematica di riferimento: umanità nella professionalità; comunicazione; influenze ambientali e personalità».

Per sbirciare dietro le quinte di un calcio già nostalgico, quello del Brescia anni ’90, in continuo saliscendi tra B ed A, non poteva esserci nome migliore da chiamare dell’ex team manager. Attraverso domande e spunti mirati, preparati dagli psicologi Pansera ed Este, si è tolta la polvere da un periodo storico a suo modo irripetibile, cercando di carpire gli insegnamenti che ancora oggi possono essere declinati all’interno di una squadra, giovanile o senior, professionistica o dilettantistica. Senza dimenticare le curiosità aneddotiche.

IL BRESCIA ANNI ’90, IN 3 AGGETTIVI

«Era un gruppo unito, vincente (per via delle tre promozioni) ed agonisticamente cattivo. Si faceva rispettare, su tutti i campi. Ricordo ancora, durante una trasferta a Torino contro i granata, la reazione dei ragazzi dopo un fallo durissimo di Pasquale Bruno su Florin Raducioiu.

In quegli anni si vinceva anche se sulla carta si era lontani dall’essere i favoriti. Il gruppo più forte fu quello della promozione con Edy Reja, stagione 1996-1997. Era una squadra vera, allora dovevi esserlo. Ci si allenava a Campo Marte, con gli ultras a pochi metri; anche con loro c’è sempre stato un confronto sano e diretto».

CHI ERANO I LEADER DI QUEGLI ANNI?

«Innanzitutto penso che il capitano non debba essere imposto, ma che vada osservato il parere del gruppo. Si può partire con un sondaggio ai giocatori, per poi confrontarlo con le idee di società e staff. L’equilibrio dello spogliatoio è fondamentale: meglio privarsi di un giocatore bravo ma nocivo, che perdere 6-7 giocatori per via di una personalità problematica.

Il Brescia di quegli anni aveva grande carattere e c’era più di un leader, chiaramente. I riferimenti erano Lucio De Paola e Sergio Domini, figure di caratura sia in campo che fuori; ma non sempre le guide del gruppo sono dei titolari. Ad esempio noi avevamo Antonio Vettore, che non giocava mai ma che era importantissimo nello spogliatoio. Bisogna avere una grande attenzione verso chi non gioca, che ha lo stesso bisogno di esprimersi di chi gioca, ma che raramente viene premiato. La grande personalità può anche generare degli attriti, soprattutto nel momento dell’integrazione.

Ricordo il primo anno di Mircea Lucescu, con lui arrivarono i rumeni: Raducioiu, Gheorghe Hagi, Ioan Sabau. Presidente ed entourage erano molto preoccupati, anche perché i tre non parlavano una parola in italiano e Gica era un ragazzo di non semplice gestione. Io cercai di avvicinarmi al loro gruppetto e scoprii che, in fondo, nutrivano interesse per le stesse cose che appassionavano il resto della squadra. Così chiesi il permesso per organizzare una cena, alla quale portai sia i leader dello spogliatoio che i rumeni. Dal giorno dopo cambiò tutto, diventammo squadra».

COME VENIVANO VALORIZZATE LE DIFFERENZE TECNICHE E CARATTERIALI?

«Attraverso il rispetto: dei ruoli, della storia, delle esperienze. Non tutti avevano il carisma dei De Paola, dei Domini, o dei Maurizio Neri, c’erano anche giocatori “silenziosi”, come Salvatore Giunta, Marco Rossi o lo stesso Dario Hübner. Avere un obiettivo condiviso aiuta molto.

In quei gruppi non esisteva né egoismo né gelosia. Ricordo le prime volte che si aggregarono talenti giovanissimi come quelli di Andrea Pirlo e Ivan Javorcic; i giocatori facevano la fila per andare a consigliare al pres di metterli subito sotto contratto e promuoverli, non importava se avrebbero tolto un po’ del loro spazio.

La solidità e l’unione del gruppo sono stati sempre il motivo dei successi, ma anche, quando mancavano, dei fallimenti: nell’anno del record negativo in A (’94-’95) c’erano tanti giocatori forti ma zero alchimia; nel ’97-’98 mandare via Reja, collante e cuore della squadra, fu una scelta disgraziata».

COME VENIVANO INTEGRATI GIOVANI E VECCHI?

«A Campo Marte c’erano due spogliatoi: in uno si cambiavano Aimo Diana, Sergio Volpi, Pirlo, Marco Piovanelli e gli altri giovani, mentre i più esperti occupavano l’altro. Ma non v’è mai stata altra divisione, anche perché era ed è interesse del Brescia lavorare sui giovani cresciuti in casa, dar loro spazio, su di loro va ad incidere anche un discorso economico che per la salute della società è centrale. Poi ogni allenatore aveva il suo metodo.

Lucescu era un grande maestro di calcio, il suo valore portava al rispetto di tutti. Reja aveva un approccio più umano, a volte scherzoso, era il numero uno dell’integrazione. Il resto lo faceva il gruppo stesso. Ci fu ad esempio un problema con Francesco Passiatore, un ragazzo che arrivava dalla Juventus. Scalpitava per giocare, metteva pressione, ma aveva come tutor Giampaolo Saurini, che ci mise un attimo a tirargli le orecchie e metterlo in riga. A volte invece accogliere i giovani è semplicissimo, come nel caso dei gemelli Filippini, persone favolose.

Oggi è vero che in Italia i giovani non sempre trovano lo spazio necessario; io penso che vada ridefinito il sistema: più si sale di categoria più precoci sono le quote, mentre dovrebbe essere il contrario. La soluzione potrebbe essere creare un campionato ad hoc per valorizzarli, come succede all’estero con i tornei per le squadre B. In Italia solo la Juventus ha aderito alle formazioni under 23…».

È CAMBIATO NEGLI ANNI IL MODO DI VIVERE LA QUOTIDIANITÀ ALL’INTERNO DEL GRUPPO?

«I social hanno cambiato le regole, non esiste più privacy. Una volta c’erano le cene, gli aperitivi, le partite a carte, la musica condivisa; ora si tengono le cuffie alle orecchie e gli occhi sono sempre sullo smartphone.

Il contesto più complicato rende più difficile creare un’amalgama. Ricordo che quando si andava in trasferta in pullman si sceglieva assieme quale film guardare, oppure lo sceglieva una persona, che però doveva accettare di essere preso in giro se il film non fosse stato apprezzato. Un giorno toccò allo storico dottore del club, Fabio De Nard, portare una cassetta; qualcuno però mise su un film osè e tutto il pullman cominciò a prendere di mira il dottore, che ovviamente era totalmente all’oscuro dello scherzo.

Sempre il pullman era il luogo dove cambiava l’atmosfera, durante il tragitto verso lo stadio, la partita iniziava lì. Oggi probabilmente è un po’ diverso».

COME SI REAGIVA AD UN PERIODO NEGATIVO?

«L’esempio dei rumeni riguarda la soluzione positiva, ma attraversammo anche momenti negativi ai quali non riuscimmo a trovare rimedio. Ho ancora sullo stomaco la stagione ’97-’98. Eravamo neopromossi, fosse rimasto Reja ci saremmo salvati tranquillamente. Invece qualcuno vicino al presidente Corioni gli fece pressioni per trovare delle scuse per mandarlo via.

Questi soggetti sono stati meteore che han fatto più danni della grandine. Subentrò Beppe Materazzi, che non ebbe grandi colpe – la squadra era ancora tutta con Reja – se non quella del pessimo approccio. Prima della trasferta di Torino contro la Juve lasciò a casa cinque giocatori, tra cui De Paola, Doni e Neri, facendo capire alla società che con lui non avrebbero giocato e che quindi andavano rimpiazzati. Forse pensava che fosse arrivato al Real Madrid. Quella partita la perdemmo 4-0.

Corioni gli disse di reintegrarli, lui lo fece, ma a quel punto aveva perso credibilità di fronte al gruppo. Dopo di lui venne Paolo Ferrario, che non aveva lo stesso spessore degli allenatori precedenti, e addirittura chiudemmo con un preparatore atletico in panchina, Adriano Bacconi. Fu inaccettabile, quella situazione mi portò ad andare via. La carriera di Reja dimostrò che avevo ragione io. Guardando al Brescia di oggi posso dire che ogni retrocessione è un trauma, non è facile ricominciare.

Il passaggio è delicato e forse i problemi di spogliatoio che si sono visti a inizio stagione nascono da una gestione sbagliata di quel momento. Sembra che alcuni meccanismi si siano rotti, il caso di Sabelli, che si permette di non allenarsi perché vuole trasferirsi, è grave; si sono lasciate andare pedine importanti, c’è stata la questione del cambio del capitano.

Da fuori ho visto questo e so di per certo che cose del genere incidono molto. Io non lavorerei solo sulla qualità dei giocatori, ma sul contesto spogliatoio. In questo senso ho letto la notizia di un possibile coinvolgimento di Antonio Filippini: secondo me è proprio ciò che serve, anche se va gestito bene il rapporto con Daniele Gastaldello e Pep Clotet, perché si potrebbe creare ancora più confusione sulla guida tecnica e sulle gerarchie di quanta già non ci sia».
Bonus track, alcune considerazioni sul calcio di ieri e di oggi che hanno aggiunto sugo a contenuti già di per sé molto nutrienti.

«Quando Hagi lasciò Brescia per Barcellona, Corioni mi disse: “Mai innamorarsi di un calciatore”. Con Gica fu difficile: era un giocatore incredibile e con lui avevo instaurato un ottimo rapporto». «Pirlo diventerà un grandissimo allenatore. Guardate come i giocatori avversari si avvicinano a lui a fine partita. Il rispetto e la storia non si comprano».

«Ho sempre avuto un rapporto complicato con la categoria arbitri, ma sono molto fiducioso di questo nuovo corso, vedo grande disponibilità al dialogo e al confronto da parte loro. Le chiusure non aiutano nessuno.

Se un personaggio come Roberto Baggio entrasse nel mondo arbitrale – non da arbitro, ma da dirigente – farebbe la differenza». «Tra vincere un campionato allievi e, ad esempio, un Torneo Anglo-Italiano, come capitò a me nel ’94, c’è differenza solo a livello mediatico. Le emozioni che si provano dentro sono le stesse».

Matteo Carone

 

 

Fonte: calciobresciano.it

Data di pubblicazione: 02 Marzo 2021

Fotografia di copertina: Giorgio Gaggiotti ai tempi del Brescia. Sulla sinistra un giovanissimo ed imberbe Andrea Pirlo.

Photogallery: Archivio ADC Mario Rigamonti

 

Pubblicato il La Nostra Storia

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