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Non è solo un gioco, e tu lo sapevi. Ciao Alex, sarai nei colori del “calcio vero”

 

“Non possiamo limitarci a volgere le emozioni del ricordo in una dimensione toccante ma triste, astratta, delimitata dalla parola ‘fine’. Lo so, non è affatto semplice, ma dobbiamo e possiamo parlare di Alex in un’ottica di felicità, focalizzandoci sulla concretezza delle opere che ha compiuto e che continueranno a dare frutto, proiettandoci verso un orizzonte infinito. Già, perché la partita della vita non finisce con la morte, ma si prolunga in una dimensione di eternità”.

Ho ascoltato queste parole con le lacrime agli occhi, caro Alex, durante l’omelia del tuo funerale. Fuori dalla chiesa della Volta il cielo era inevitabilmente grigio e piovoso, lo specchio di ognuno di noi. Dentro c’erano una miriade di cuori che battevano piano, nel silenzio. Nonostante tutto non mancavano i colori: quelli delle sciarpe di Brescia, Milan e Bayern Monaco, che ornavano il tuo feretro.

Un mix che mi ha catapultato in un luogo e in un tempo precisi. Via Rose di Sotto, primi anni Novanta. Mangiavamo in fretta perché l’appuntamento era fissato per le 14.30 al nostro “stadio”, sotto casa tua. Campetto? Non scherziamo, quello era un tempio del calcio vero. Venti metri per dieci di erba rubata ad un campo di granoturco, che lo cingeva su due lati (est e sud). Le pannocchie sembravano spettatori assiepati al primo anello del Meazza. A nord c’era la curva, riservata ai tifosi più caldi: con un fosso che ci separava da una strada poco trafficata. A ovest la siepe, che garantiva intimità alle nostre scorribande, poi una fila di alberi alti come riflettori. Era perfetto, esaltante. Le porte erano due paletti di plastica conficcati nel terreno. “Vi immaginate che spettacolo se avessimo quelle vere?”. Dettagli.

Arrivavamo in sella alle nostre biciclette dal quartiere Primo Maggio e da Sant’Anna, da via Milano e Fiumicello. Per diverso tempo quello è stato il nostro centro di gravità permanente. Borracce, palloni spelacchiati e un sacco di colori. Eccoli lì, nelle magiche maglie – spesso “tarocche” – che ci trasformavano in Maldini e Baggio, Balbo e Fonseca, Savicevic e Del Piero, Hagi e Batistuta. Tu avevi sempre i guanti e spesso indossavi il cappellino dei bavaresi. Ti chiamavamo “Il tedesco”. Chi ti sceglieva poteva contare su un portiere vero, agli altri toccava quello volante.

Prima di iniziare si facevano le squadre. Conta per determinare i capitani, scelta dei compagni e del club di riferimento, poi i sorteggi con i bigliettini ricavati da un foglio a quadretti strappato da un quadernino, dove riportavamo accoppiamenti, risultati e classifiche. Una manciata di minuti e arrivava il via a partite epiche, intrise di tenacia e fantasia, situazioni imprevedibili e bisticci, colpi di scena e strette di mano, gioia e rabbia, ginocchia e gomiti sanguinanti, ma soprattutto libertà, un enorme senso di libertà.

Pomeriggi lunghissimi, in cui l’orologio correva veloce. A dare il triplice fischio era il sole, quando iniziava ad abbassarsi passando dal giallo all’arancio.

Non era solo un gioco, caro Alex. In quei giorni spensierati abbiamo costruito un pezzo del nostro avvenire. Su quell’erba siamo cresciuti insieme, imbastendo alcune colonne portanti delle persone che siamo oggi. Qualche anno dopo avremmo preso strade diverse, che di tanto in tanto si sarebbero incrociate di nuovo, anche solo per un attimo, il tempo di un saluto o di un abbraccio. Una matrice comune sarebbe rimasta. Ognuno di noi, pur nella sua unicità, l’avrebbe messa a frutto a modo suo.

Tu hai fatto un capolavoro. Sei riuscito a custodire quei pomeriggi in una sfera di cristallo, quelle che contengono paesaggi da sogno sui quali scende la neve. L’hai mostrata a bambini e ragazzi trasmettendo loro gioia e passione, dedizione e voglia di migliorarsi. Con te si sono divertiti, hanno esultato per le vittorie e accettato le sconfitte. Sono cresciuti. Come noi. Hai preso il meglio della nostra adolescenza e, diventato adulto, ne hai fatto un dono per le nuove generazioni.

È per questo che, in un certo senso, sei sempre rimasto su quel campetto. Pardon, tempio. O forse te lo sei semplicemente portato dentro. Sei diventato grande restando fedele allo spirito di quei giorni, che hai elevato e diffuso, insegnando calcio e vita, ciò che respiravamo a pieni polmoni. Hai moltiplicato quel sentimento, che può educare, guidare ed ispirare tante persone. È grazie a quelli come te che in futuro potremo scrivere e raccontare nuove storie di valore.

Ho pensato a tutto questo, e proprio mentre i ricordi sfumavano in un sorriso ho ritrovato questa visione nella toccante lettera che il nostro amico Cristhian ti ha dedicato, letta al termine della celebrazione. Un assist dalla terra al cielo, un ultimo saluto che non sa di addio, ma di arrivederci: “Un giorno ci incontreremo, rigiocheremo le nostre interminabili partite, ma questa volta le porte saranno vere, come le abbiamo sognate. Proteggici come proteggevi quella porta”.

Ricordi felici, concretezza, infinito. Ciao Alex!

Fonte: calciobresciano.it

Data di pubblicazione: Martedì 23 Novembre 2021

 

Pubblicato il Il Diario di Alex

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